La parashà di Shemot… in brevissima!
Nella parashà di questa settimana si parla degli ebrei che diventano prominenti e numerosi. Sale un nuovo re in Egitto “che non aveva conosciuto Josef” (o meglio: che ha scelto di non conoscerlo non avendo nessuna gratitudine per quello che ha fatto). Il faraone decreta la schiavitù per il Popolo Ebraico.
Moshè nasce e viene immediatamente nascosto a causa del decreto secondo cui tutti i neonati maschi ebrei devono essere uccisi. Moshè è salvato dalla figlia del faraone, cresce nel palazzo reale, esce fuori per rendersi conto della situazione dei suoi fratelli ebrei. Uccide un egiziano che stava colpendo un ebreo, scappa a Midian. Diventa un pastore, e poi HaShem gli comanda, nell’episodio del roveto ardente, di portare gli ebrei fuori dall’Egitto. Moshè torna in Egitto, parla al faraone che si rifiuta di dare il permesso di liberare gli ebrei. HaShem dice “Ora inizierai a vedere cosa farò al faraone!”
Dvar Torà
Basato su “Growth Through Torah” di Rav Zelig Pliskin
Quando L’Onnipotente dice a Moshè che lui sarà il leader che parlerà con il faraone per chiedere la liberazione del popolo ebraico, Moshè risponde:
"Per favore mio Signore, manda qualcun altro.” (Shemot 4:13)
Perché Moshè tenta di evitare l’incarico?
Il Ramban, Rabbi Moshè ben Nachman, spiega che Moshè chiede di mandare qualcun altro perché pensa che qualsiasi altra persona al mondo sia migliore di lui per svolgere questo incarico.
A prima vista sembra sconcertante. Come può Moshè considerarsi indegno? Rabbi Chaim di Vologin spiega che per quanto una persona sia intelligente e saggia e abbia ottenuto molto, potrebbe non essersi impegnata quanto avrebbe potuto. Con il suo talento avrebbe potuto ottenere molto di più se solo si fosse sforzata. D’altro canto, una persona che sembra essere molto modesta, forse si sta impegnando al massimo. La persona modesta è riuscita a raggiungere il suo potenziale, l’altra è ben lontana dall’esserci riuscita.
Per questo motivo Moshè si sente inadatto. Nella sua umiltà ha pensato di essere ben lontano dall’essere riuscito a raggiungere il suo potenziale, meno di chiunque altro.
Questa è una lezione per due tipi di persone. Coloro che si sentono arroganti e presuntuosi per il loro grande intelletto e per ciò che sono riusciti a raggiungere, dovrebbero essere consapevoli del fatto che forse avrebbero potuto fare di più sfruttando meglio il proprio potenziale. Per lo stesso identico motivo, coloro che provano duramente ad agire in modo elevato, sforzandosi ampiamente, non devono essere invidiosi o scoraggiati quando vedono che gli altri sembrano apparentemente ottenere più di quanto non abbiano fatto loro.
Parlare prima di bere il vino del kiddush
Quando una persona recita il kiddush del venerdì sera, per conto di tutti i presenti a tavola, coloro che ascoltano devono avere in mente di uscire d’obbligo con le berachot di colui che recita il kiddush – le berachot di “borè perì haghefen” per il vino e quella per il kiddush. Avendo questa intenzione sono considerati come se essi stessi abbiano personalmente recitato le berachot.
Come sappiamo, c’è l’uso che chi recita il kiddush passa poi il bicchiere a tutti gli altri così che possano bere il vino del kiddush. Coloro che sono a tavola, non possono parlare prima di aver bevuto il vino, così come una persona che recita una berachà su un cibo o una bibita non può parlare prima di aver mangiato o bevuto. Come abbiamo detto chi sente la berachà è considerato come se lui stesso l’abbia recitata, quindi anche lui non può parlare fino a dopo aver bevuto il vino, così come chi recita la berachà non può parlare prima di aver bevuto.
Questo vale non solo per il venerdì sera, ma ogni qualvolta una persona compie l’obbligo di recitare una berachà per un cibo o una bevanda, ascoltando la berachà di qualcun altro. Se per esempio due persone vanno a bersi qualcosa insieme, e uno decide di ascoltare la berachà dell’altro anziché recitare la berachà lui stesso, questa persona non deve parlare daquando comincia ad ascoltare la berachà fino a che non beve.
La domanda è: se una persona ha parlato prima di bere il vino del kiddush, deve rifare la berachà? Spesso capita che le persone si dimentichino l’alachà e parlino dopo il kiddush prima di bere il vino. Possono appoggiarsi sulla berachà che hanno sentito o devono recitare una berachà per conto proprio?
Molti rishonim (autorità alachike medievali), fra cui il Rosh (Rabbenu Asher Ben Yechiel, Germania – Spagna, 1250-1327) e il Mordechai (Rabbì Mordechai HaCohen Ashkenazi, Germania, 1240- 1298), sostengono che bisogna recitare una berachà in questo caso. Secondo questo punto di vista, parlare fra la berachà è l’atto di bere, compromette la validità della berachà, richiedendo di conseguenza la recitazione di una nuova berachà. Questa sembra essere l’opinione accettata dal Bet Yosef (Orach Chaim, 167). Però, il Ramà (Rabbì Moshè Iserless, Polonia, 1525-1572) cita l’opinione del Rokeach (Rabbi Eleazar di Worms, Germania, 1160-1237) che dice che ci si può appoggiare sulla berachà ascoltata, perfino se si è parlato nel mezzo. Secondo questa posizione, a condizione che chi abbia recitato il kiddush abbia bevuto il vino senza parlare nel mezzo, gli altri possono appoggiarsi sulla sua berachà nonostante abbiano parlato.
Per stabilire l’alachà, dobbiamo ricordarci della famosa regola secondo cui “safek berachot leachel” ossia che non si recita una berachà se c’è il dubbio che non sia necessaria. Nel caso in questione, quindi, si può bere il vino senza ripetere la berachà. Bisogna però sottolineare, che questo si applica solo “bediavad” (a posteriori), nel caso in cui si abbia parlato per errore. La cosa migliore è comunque stare attenti a non parlare dopo aver sentito il kiddush prima di bere il vino.
Riassumendo: dopo aver recitato il kiddush, chi lo ha ascoltato non deve parlare fino a che non abbia bevuto. Se, però, qualcuno ha parlato nel mezzo, può bere senza recitare la berachà, a condizione che chi ha recitato il kiddush abbia bevuto senza parlare nel mezzo.
Shabbat shalom!!
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